Socialità individualistica? No, grazie

Socialità e solitudine. Spesso se ne sente parlare al giorno d’oggi. Tuttavia non si analizzano mai questi due temi in maniera completa. Anzitutto, ritengo che, per una corretta analisi, sia necessario ricordare molto brevemente le due conclusioni opposte cui si può giungere riflettendo su tali temi. La prima è stata sintetizzata da Sartre in una frase drammatica: “L’enfer c’est les autres.” Sicché il rapporto con gli altri, e quindi la socialità, viene visto in maniera assolutamente negativa. Al contrario, invece, secondo il filosofo francese Emmanuel Lèvinas il mio incontro con  l’altro fa sì che la mia natura non possa non impormi la responsabilità della sua esistenza. Naturalmente, sappiamo che, fra due estremi, sono frapposte moltissime altre sfaccettature e che queste possono concretizzarsi in diversi modi. Vediamo, dunque, quali esse sono. L’uomo necessita della relazione con gli altri, come aveva già capito Aristotele, definendo l’uomo come zoòn politikòn (e, in quanto tale, portato a unirsi, per natura, ai propri simili, per formare delle comunità), e come peraltro è stato scientificamente accertato. È importante, però, comprendere che cosa si intenda per socialità nel modo in cui la pensano Aristotele e i gli scienziati. Ebbene, si potrebbe definire la socialità, in questo senso, come l’occasione per trovare se stesso nell’altro, o, hegelianamente, per divenire in sé e per sé attraverso l’autodeterminazione di sé nell’altro. Concretamente, ciò significa che la relazione io-altro deve essere una condizione in cui entrambi i soggetti stiano bene, e, dunque, in cui ognuno dei due soggetti sia felice (termine che indica una gioia piena, destinata a lasciare un segno) e non contento (lemma che fa, invece, riferimento a uno stato d’animo transitorio, legato a una gioia passeggera). Acciocché tutto questo accada, è necessario che ognuno consideri l’altro come un “tu”, non come un “questo”. La differenza sta in una sottigliezza che aveva colto, anni addietro, il filosofo austriaco Martin Mordechai Buber. Egli aveva capito che le tre persone singolari non nascono tutte insieme. Prima di tutto nasce l’“io” (di fatti l’infante dice: “Io voglio…”; “Io posso…” ecc.); poi, nasce la terza persona con cui si identifica un qualcosa estraneo a sé, al quale solitamente si attribuiscono delle qualità (“Questo è buono.”; “Questo è bravo.”; “Questa è simpatica.” ecc.); infine, per arrivare al “tu”, è necessario un salto abissale, perché la dimensione del “tu” implica che io riconosco che c’è un soggetto, altro da me, a cui, però, io riconosco la mia stessa autorità, autorevolezza, libertà e soggettività. E questo, dunque, deve essere l’orizzonte in cui deve concretizzarsi la socialità. Infine v’è un ultimo aspetto da ricordare: la relazione io-altro deve essere vista, come dice Galimberti, allo stesso modo in cui un artista vede la propria opera: ossia, come qualcosa che deve sempre essere migliorato, perfezionato, mai completo. Oggi, invece, vediamo che il concetto di socialità è visto in maniera radicalmente diversa. Viene intesa come delle relazioni che, a tutta prima, parrebbero essere salde e profonde, come potrebbe far pensare il grande uso che si fa del gesto dell’abbraccio, dal momento che è il mezzo con cui si trasmettono maggiormente i sentimenti. Tuttavia, se si analizza la situazione più attentamente, ci si accorge che, in queste relazioni, ognuno non riconosce più l’altro come un “tu”, bensì come un mezzo per soddisfare i capricci del proprio “io”: nella fattispecie, l’importante è mostrare di avere amici, nella logica in cui ciò che conta, in tale società dell’apparire, è quel che si fa vedere; appunto, come si appare. Dal momento che una buona socialità, però, non si fonda sull’apparire, ma sull’essenza delle relazioni, consegue logicamente che le relazioni vere, oggi, sono in realtà molto poche, ossia sono molto pochi i rapporti in cui una persona è pronta a fare per l’altro un sacrificio (termine che per noi ha solitamente un’accezione negativa, ma che, in realtà, significa una cosa nobilissima: il sacrificio è letteralmente un’azione che rende sacro l’oggetto). Ancora, tutto questo non renderà mai felici, nel senso sopra descritto, ma semplicemente contenti, poiché tutto ruota attorno alla necessità di ottenere, in ogni momento, una contentezza istantanea, non giungendo mai, in tal guisa, ad un soddisfacimento pieno, vero, libero. Tutto ciò si trasla anche nella forma in cui questa socialità talvolta si manifesta: i social-network sono l’emblema delle relazioni dell’“apparire”, in cui si chiamano “amicizie” dei click. Da questo ritratto, emerge che la dimensione che permane, nella socialità di oggi, è la stessa che domina la società odierna: quella dell’“io”, dell’individuo. Ognuno deve pensare esclusivamente a se stesso e tutto ciò che incontra, sia esso una cosa o una persona, è ridotto a strumento per poter esaudire ogni capriccio dell’individuo, per poter realizzare, come direbbe Fusaro, il “godimento acefalo illimitato”.  In quest’ottica, dunque, un modo per arginare tale mentalità imperante è, certamente, la solitudine. Di questa bisognerebbe imparare ad apprezzare gli aspetti positivi. Infatti, è la condizione della produttività, in cui si lavora, si studia. È risaputo che il modo migliore, ad esempio, per studiare, è stare da soli in una stanza, senza alcun tipo di distrazione. La solitudine, inoltre, rappresenta un grande ostacolo alla mentalità dominante, in quanto è il momento di maggiore intimità con se stessi e non di svago irriflesso realizzato attraverso l’uso di altre persone. La solitudine, infine, allena la capacità di resilienza, in quanto obbliga a cercare un modo per farci convivere: un aspetto che andrebbe riscoperto, in quanto l’unico momento in cui, alla fine, anche in questa società, ci si ricorda dell’esistenza dell’altro è quando si è soli, si è in difficoltà. Per cui, paradossalmente, la solitudine potrebbe servire come modo per riscoprire l’importanza dell’altro. In conclusione, i punti da cui bisogna ripartire per trovare una socialità “ideale” sono principalmente due: la religione, segnatamente il Cristianesimo che è sin dal principio relazione, giacché il divino non è uno ma è trino, una relazione per cui ogni soggetto non può essere senza gli altri due; la famiglia che è il primo luogo dove l’essere umano ha rapporti intersoggettivi (a tal proposito, giova rammemorare che, per i Greci, popolo in cui maggiormente si realizza la concezione comunitaria e intersoggettiva, la famiglia costituiva la cellula base della comunità). È da notare, infine, come queste due dimensioni stiano svanendo, poiché sono le uniche che ancora rappresentano un ostacolo all’ideologia individualista imperante: un ostacolo che non può essere tollerato. 


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