La solitudine cercata e subita

Da quando è stata chiusa la scuola il maggior tempo libero e la curiosità mi hanno spinto a meditare. Così, ogni giorno mi ritaglio dieci minuti in cui interrompo tutto quello che stavo facendo prima e rifletto in silenzio su qualsiasi argomento che mi attragga. La prima volta che ho provato a farlo ho avuto una sensazione davvero insolita: dopo aver chiuso gli occhi, era come se il tempo si fermasse e io entrassi in una dimensione parallela. Mi sono accorto solo dopo che quello che avevo sperimentato si chiamava solitudine e, per lo meno in quel caso, era qualcosa di meraviglioso. Da un lato, questa esperienza ha rivoluzionato il mio modo di vedere la realtà; dall’altro, ha ingenerato in me degli interrogativi a cui ho cercato di rispondere in questo tema: che cos’è la solitudine? Ne esiste un solo tipo o ce ne sono di più? Perché la proviamo? Ma soprattutto, è un bene o un male? “La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista.” La massima del regista italiano Bernardo Bertolucci pone un problema che bisogna inevitabilmente affrontare se si vuole definire questo concetto, ovvero che la solitudine è soggettiva. Tuttavia, benché si manifesti in modo diverso a seconda della persona, possiamo individuarne due principali forme: quella “cercata” e quella “subita”. La solitudine “cercata” è una condizione che creiamo deliberatamente per instaurare un rapporto privilegiato con noi stessi. Si tratta di una dimensione positiva che spesso ci manca al giorno d’oggi e che io ho avuto l’occasione di testare sulla mia pelle tramite la meditazione.  Le ragioni che ci inducono a ricercare un simile stato d’animo sono varie, ma nella maggior parte dei casi siamo spinti da  un desiderio di pace e tranquillità. È E’ lo stesso del Petrarca di “Solo et pensoso”, che si rifugia nella natura, lontano da ogni “vestigio uman”, nell’invano tentativo di non mostrare la sua passione d’amore (“com’io dentro avvampi”). La solitudine “subita”, al contrario, è una situazione imposta da fattori esterni all’individuo. Bertolucci la definisce come “una tremenda condanna”; lo scrittore francese Robert Sabatier, invece, come “un’aggressione”: entrambi i casi esprimono bene quanto possa essere dilaniante questa condizione. Esaminando attentamente la società odierna, ci accorgeremmo che essa ne è pervasa: la troviamo nel grido strozzato di un adolescente escluso da tutti i coetanei; nel timore di un adulto costretto a ricominciare daccapo dopo un rapporto durato per anni; nell’amarezza di un anziano a cui ormai fanno compagnia solo i propri ricordi. Per rispondere a quest’ultimo quesito, attingerò alle mie esperienze personali. In questi giorni, a differenza di quanto accadeva prima che iniziassi a meditare, mi accorgo sempre più spesso dei momenti di solitudine. Noto che sto volentieri “in sua compagnia” anche per un pomeriggio intero, ma che poi la sera avverto un incontenibile bisogno di comunicare con qualcuno. Esatto: nonostante io sia consapevole che sono le ore passate da solo a farmi crescere maggiormente (soprattutto sul piano intellettuale), devo ugualmente “perdere” del tempo socializzando. E se non soddisfo questa  mia necessità, quella che prima aveva tutta l’aria di una solitudine “cercata” si trasforma immediatamente in una “subita”. Questa è la ragione per cui ritengo che la solitudine sia un bene prezioso, ma solo se usato nella giusta misura. “Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri” dice Pavese. Ma è un mistero che era già stato svelato molto tempo prima da Aristotele: l’uomo è animale sociale ed è per questo motivo che prova un’attrazione istintiva verso gli altri. Infine, per riassumere in una frase l’intero scritto, ho voluto riportare la seguente citazione dello  scrittore olandese Simon Carmiggelt: “La solitudine è come un pasto piacevole, a patto che non vengaconsumato ogni giorno”.

Scritto da Alessandro


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